Chi non conosce i Castelli Romani? Sono famosi per la Natura, per i laghi, per i paesaggi, per la cucina, per le fraschette… Eppure nel tempo non sono riusciti a collocarsi nel ghota dell’enologia. Alla base di questo percorso ad handicap c’è stata sicuramente una comunicazione errata dall’inizio, o forse sarebbe meglio dire una “non comunicazione”.
Mentre altre regioni e altri territori investivano nella creazione di brand che potessero essere esportati come “bene prezioso”, di lusso quasi – che poi in realtà sono finiti giustamente sulle tavole della ristorazione di ogni fascia di prezzo (Falanghina, Pecorino, tanto per fare due esempi) -, i Castelli Romani segnavano il passo.
E a poco è valso, a posteriori, cercare di ritagliarsi una fetta di visibilità con il marchio Castelli Romani; un po’ per la necessità che ogni casa ha di veicolare la propria produzione con un nome specifico, un po’ perché l’ampiezza geografica – tra territori vulcanici e collinari – ha fornito vini molto diversi tra loro per alcolicità, profumi e sapori, e un po’ perché comunque si è perso tanto tempo negli anni.
Si può recuperare? Direi di più: si deve recuperare! Perché negli anni è aumentata la qualità, a volte persino a scapito della produzione. Una scelta a dire il vero non sposata da tutti, perché ovviamente costa una contrazione di introiti “sicuri”; ma fortemente voluta da alcuni imprenditori coraggiosi, soprattutto giovani, che stanno puntando sull’eccellenza.
Perché di eccellenze si parla, a patto di portare in tavola bottiglie “datate”. Non sempre infatti è l’annata in corso a fare la differenza. Anzi, lasciare invecchiare il vino, purché provenga da territori con tratti geologici profondi e differenti, riesce a renderlo più corposo, profumato, masticabile (pur parlando di vini bianchi).
Una sfida che può essere vinta, allontanando il consumatore (e soprattutto il ristoratore romano) dallo stereotipo del “vinello” dei Castelli per appropriarsi di quella dignità che il vino figlio di studio, vitigni e lavorazione deve ottenere.
Per farlo è importante far sapere tutto questo, e poi proporlo sui… tavoli giusti (passateci il calembour) affinché i vini dei Castelli Romani prendano il posto che meritano nelle “carte” offerte agli avventori.
In questo senso, la degustazione guidata dei vini del territorio, a cura dell’AIS Lazio, riservata alla stampa sabato scorso a Lanuvio, è stata un ottimo punto di partenza. Per l’occasione alcune aziende del territorio del Parco dei Castelli Romani – in maniera rigorosamente anonima – hanno presentato le loro annate più prestigiose. L’intento infatti non era quello della mera pubblicità al prodotto, ma del racconto di una filosofia, di un progetto che deve crescere, della degustazione che vada oltre l’etichetta.
Un racconto magistralmente passato per la competente oratoria di Fabrizio Gulini, degustatore ufficiale e sommelier Master Class, responsabile dell’Ais Castelli Romani. Un racconto che è letteralmente “entrato” nelle bottiglie, nella loro storia (anche ventennale!!) descrivendo come un vino possa diventare eccellenza.
I Castelli Romani – già lo fanno – possono produrre vini da tavola commerciali (e anch’essi, va detto, offrono uno standard elevato…) ma possono anche produrre tipologie di offerte superiori che hanno tutte le caratteristiche per conquistare Roma. E poi aprirsi al mondo… dell’enologia.
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